"Bellinzona"

Roberta Mazzola

 

 

 

 

Da Lascaux ai nostri giorni, in qualsiasi civiltà nasca, di qualsiasi credenza, di qualsiasi motivazione, di qualsiasi pensiero, di qualsiasi cerimonia si circondi, pura o impura, figurativa o no, la pittura anche quando sembra destinata ad altri scopi, non celebra mai altro enigma che quello della visibilità.

(Maurice Merleau-Ponty).

 


Per catturare i tre frammenti di cerchio che fluttuano liberamente nello spazio costituito dalla veduta di Bellinzona e del suo intorno, l'osservatore deve trovare fra i merli del Castello di Montebello il giusto punto di vista verso Castelgrande. E il punto di vista da cui l’autore ha proiettato il suo disegno, il tracciato che l'osservatore ha già avuto modo di conoscere attraverso le superfici di colore rosso, accidentali e fra loro prive di coerenza, che per alcuni mesi, per festeggiare l'iscrizione dei castelli e della murata nel patrimonio dell'Unesco, marcano in maniera significativa ma arbitraria la città e i suoi edifici. Solo un attimo prima, l'immagine dei tre archi di cerchio appariva ancora scaglionata su diversi piani, pronta a disperdersi nello spazio mutevole dei nostri spostamenti quotidiani; solo da questa "finestra" immobilizzante, la somiglianza di colore dei frammenti, la continuità di direzione delle linee e la "buona forma" del cerchio partecipano alla messa a fuoco e muovono verso una soluzione necessaria, di schiacciante evidenza.


L’esperienza di una costellazione di superfici pittoriche, immotivate nella collocazione e fra loro discordanti, che improvvisamente convergono in un piano dell’immagine e in una figura geometricamente definita, è al centro dell'intervento intitolato Segni e più in generale caratterizza i lavori di Felice Varini dalla fine dagli anni Settanta a oggi: "il principio che sta alla base – scrive Johannes Meinhardt - consiste nel contrapporre due modi percettivi o modi di lettura fra loro incompatibili, provocati dalla disposizione nello spazio di pitture o fotografie, e al tempo stesso nel dimostrare che ambedue i modi non sono altro che effetti visivi diversi, dipendenti dal punto di vista dello spettatore" (1). Varini crea uno scarto fra la visione del piano figurativo e lo spazio visto sempre solo parzialmente della lettura minimalista rivolta alle marcature pittoriche degli elementi architettonici, affrontando nella sua problematicità il tema della pittura come illusione, già al centro degli interessi degli artisti primo Rinascimento e particolarmente sentito nell'arte contemporanea a partire dagli anni Sessanta (2).


Per Adachiara Zevi, l'artista agisce come un pittore nello spazio tridimensionale che viola l’essenza spaziale dell'architettura, a cui la pittura è ancorata, provocando un ribaltamento della logica prospettica attraverso la riduzione dello spazio alla sua immagine bidimensionale. Ma,"come in un'anamorfosi che si deforma e diviene irriconoscibile all'allontanarsi dal punto fisso di visione, cosi in un'opera di Varini il minimo spostamento dal fuoco rivela immagini frammentate, discontinue, aderenti all'involucro, rispettose della qualità dello spazio" (3). Il dispositivo pittorico che viene messo in scena conserva alcuni presupposti dell'artificio prospettico e prevede un osservatore esterno, immobile di fronte al piano dell'immagine, ma al tempo stesso afferma anche la nostra partecipazione al senso di cio che si sta manifestando, attraverso i movimenti nello spazio dato e in questa diversità di punti di vista: "sintetizzando direi un punto di vista centomila punti di vista", spiega l’autore intendendo il punto di vista innanzitutto come strategico e pragmatico, come luogo delle condizioni di visibilità di un angolo del mondo (4). In una prospettiva fenomenologica, la percezione non è mero rispecchiamento delle cose ma visione attiva, forgiante, che avviene processualmente. Non si tratta infatti solo di spazio dato (il contesto architettonico preesistente) o di spazio rappresentato (attraverso l’illusione iconica di un "piano figurativo" perpendicolare rispetto all'asse visivo dello spettatore), ma della capacità stessa di interrogare la spazialità come esperienza percettiva, nel qui e ora dell'evento espositivo, attraverso la partecipazione attiva dello spettatore (5).


Come lo spazio si rende visibile, per qualcuno, in un determinato contesto e secondo un particolare punto di vista? Non mutano, nell'ultimo lavoro di Felice Varini, le domande che dell’opera privilegiano il suo manifestarsi, il suo accadere e il suo presentarsi al pubblico. La situazione con cui l'artista si è confrontato è pero piuttosto insolita e per certi versi si tratta di un lavoro "al limite. Si tratta di una situazione inedita per le grandi distanze e la varietà dei supporti da contrassegnare concretamente, e ad essere messi alla prova sono innanzitutto le tecniche di proiezione e di realizzazione dell'immagine costituita da bande monocromatiche prestampate che aderiscono alle diverse superfici. E fondamentalmente un lavoro "al limite" anche per la dimensione urbana implicata, che porta a valorizzare la percezione dei singoli frammenti, la visione parziale, nella dilatazione spaziale e nella discontinuità temporale dell'esperienza percettiva. Sicuramente anche per la natura dell’immagine che il luogo ha suggerito all’autore, poiché questa volta non si salda piu in una gestalt pittorica compiuta, in una figura geometrica semplice e rigorosa come siamo abituati a vedere, ma anche dal punto di vista privilegiato mantiene un carattere policentrico e frammentario, che l'osservatore completa induttivamente. Il centro dell'immagine è costituito da un vuoto geometrico e le interruzioni della linea di contorno conferiscono ai tre cerchi una componente virtuale, una connotazione di frammento che puo far pensare a un rapporto di somiglianza con la natura frammentata e policentrica della città contemporanea. Va infine aggiunto che si tratta di un lavoro "in situ", temporaneo e non permanente, rivolto a un pubblico vasto ed eterogeneo, a cui l'intervento deve saper rivolgere le giuste istruzioni e le giuste domande, mettendo in circolo lo spazio della'bitudine, lo spazio dell'evento, della discontinuità, e lo spazio qualitativo del possibile. Il tracciato che collega il castello a Piazza del Sole e alla strada ma anche ai suoi orizzonti costituiti dalle montagne e dal cielo, deve fare i conti con alcuni pericoli, fra cui quello di sollecitare cornici interpretative poco produttive o addirittura devianti, come nel caso di una lettura in chiave di "land art".


"Se il sito condiziona il tipo di intervento, l'intervento dal canto suo influenza la percezione del luogo" (6). E la percezione scontata dello spazio ad essere messa in gioco dall'iscrizione di segni "pittorici" nella città di tutti i giorni, ma anche attraverso l'immagine che si presenta all'osservatore quando prende di mira il suo oggetto da una prospettiva privilegiata. I rapporti fra figura e sfondo non sono gerarchizzati una volta per tutte e lo sguardo è tutt'altro che immobilizzato. All'immagine fluttuante e senza piu legame con le cose, la veduta di Bellinzona non cede volentieri il suo posto e cio che rimane all'osservatore è anche una visione diversa della città e i suoi edifici. Quei segni rossi fanno leggere un'altra immagine del castello, lo riducono a disegno bidimensionale con i suoi vettori e le sue discontinuità, con le sue luci e le sue ombre generatrici di spazialità. E basta un' automobile che dalla strada attraversa uno dei cerchi per muovere lo sguardo verso un altro tipo di segmentazione. Nel contesto che lo accoglie, nell'incontro con lo spettatore e con il luogo, l'intervento pittorico intende valorizzare una dimensione propriamente estetica e inscrive innanzitutto "una progettualità intesa a non ridurre immediatamente il mondo a figure stereotipe, a non trasformarlo in puro lessico… cercando invece di farne percepire una dimensione del sensibile, un'altra lettura, che contemporaneamente a una scena abitata da oggetti figurativamente riconoscibili, faccia cogliere i tratti minimali, percettivamente motivati, di questi stessi oggetti" (7).


Roberta Mazzola


1 ) Johannes Meinhardt, La realtà dell'illusione estetica. Le "trappole visive" di Felice Varini, Lugano, Edizioni Studio Dabbeni, 1999, p.13.
Per la citazione iniziale: Maurice Merleau-Ponty, L'occhio e lo spirito, Milano, SE, 1989, p.23.
2) Felice Varini è nato a Locarno nel 1952 ; attualmente vive a Parigi. Per un confronto fra la sua opera e quella di altri artisti nell'ambito della pittura postminimalista europea, oltre al saggio di Meinhardt è possibile leggere il testo della conferenza tenuta da Maddalena Disch all'Accademia di Architettura di Mendrisio il 27 novembre 1999: Maddalena Disch, "Felice Varini", Temporale , 50-51, pp.16-22
3) Adachiara Zevi….
4) Felice Varini citato in Johannes Meinhardt,, op.cit., p. 19
5) Per quanto riguarda il contributo della fenomenologia nello studio delle problematiche legate ai concetti di "spazio" e di "punto di vista" : Sandra Cavicchioli (a cura di), Versus. Quaderni di studi semiotici , 73/74 (numero monografico intitolato La spazialità : valori, strutture, testi ).
6) Maddalena Disch, cit. , p. 18
7) Sandra Cavicchioli, "Spazialità e semiotica : percorsi per una mappa", Versus, cit., p.33

 

 

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